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lunedì 24 febbraio 2014

Il mago che gioca con il Tempo


Riproporre con una canzone le emozioni che facevano battere i cuori cinquantadue anni fa, senza alcuna malinconia ma con la gioia piena di un attimo che palpita vivo, è cosa assai difficile. E chi ci riesce può -a ragione- essere chiamato "grande". Come Marco Mengoni
 
A sinistra, Sergio Endrigo canta nel 1962 "Io che amo solo te". A destra, Marco Mengoni con la stessa canzone nel 2014

Si fa presto a dire “gli anni Sessanta”. Si fa presto a dire “canzone d'autore”. Ci si sente già più belli, più eleganti, più “bon ton” solo a pronunciarle queste definizioni, e molti lo fanno con la certezza di andare sul sicuro, senza tema di smentita. Ma una cosa è l'ennesima operazione nostalgia - le pettinature cotonate, le minigonne, la plastica color pastello, la dolce vita e così via– e un'altra è far rivivere attraverso la musica lo spirito di un'epoca. 

Nella quarta serata del Festival di Sanremo 2014 si è voluto omaggiare il fiore all'occhiello della produzione musicale del nostro Paese, quel patrimonio di brani che oltre ad entrare a far parte della nostra vita l'hanno anche resa più bella - o comunque più intensa- e stanno già scavalcando le generazioni. Dalla, De Gregori, Bindi, Tenco, De André, Bennato, Paoli... autori molto diversi sia per stile che per modo di arrivare al pubblico, ma tutti ugualmente capaci di dare ai pochi minuti della canzone un peso specifico espressivo molto importante. 

È normale che la distanza temporale abbia dato ad alcuni pezzi una patina di antico o che li abbia, apparentemente, allontanati un po' dall'ascolto di oggi, ma giustamente è con uno di questi che è stata aperta la serata. 

Senza inutili presentazioni, palco vuoto, accordi d'orchestra e Marco Mengoni che entra avvicinandosi al microfono. C'è gente che ama mille cose... e la magia è così immediata da spegnere ogni ultima distrazione e far chiudere gli occhi. 

Si, è proprio “Io che amo solo te” di Sergio Endrigo. Per molti, un bouquet di ricordi da assaporare, per altri una sorpresa di parole incredibilmente dirette, forti ma proposte quasi con umiltà. E con grande umiltà Marco entra nel pezzo: calibrando il tono sommesso nei versi iniziali, quelli in cui l'autore parla degli “altri”, quelli che amano e ricercano le mille cose del mondo, e slanciandosi poi, ma sempre con grande dolcezza, nella dichiarazione più forte che si possa fare “io che amo solo te non ti lascerò”. 

Amore. Senza dubbi, senza incertezze: amore per tutta la vita. Quasi un atto di fede. L'amore che basta a superare ogni difficoltà, che sembra così ingenuo, oggi, così datato.

Marco sorride, perché interpreta un uomo che sorride alla vita, che sta parlando alla donna che ama e con la quale vede il suo futuro. Marco canta la vita come la si vedeva allora: non facile, non ricca, ma straordinariamente bella.

Le canzoni degli anni Sessanta non avevano solo stile, dolcezza e i verbi all'infinito senza l'ultima lettera (veder, capir, amar...), ma anche una struttura musicale impeccabile e la capacità di andare subito al nocciolo delle emozioni: la nota distesa e libera che arrivava con la sua luminosità dopo il passaggio tra la strofa e l'inciso, la ripresa identica con poche parole cambiate, il gusto di poter dire -ad alta voce in pubblico- parole come “bacio”, “labbra”, “stringimi” in un'epoca in cui le ragazze dovevano cercare scuse per uscire sole da casa. 

Stupore. Meraviglia. Le canzoni allora erano un codice che i ragazzi usavano per dirsi le cose da una finestra all'altra quando il telefono era chiuso con il lucchetto. 

Questa è la forza di una canzone dei primi anni Sessanta, e questo Marco ha fatto sentire sulla pelle, ha fatto respirare, ha fatto sorridere con la sua voce morbidissima e fluida, intensa ed elegante. Con la misuratissima gestualità di Endrigo e la parola “gioventù” che diventa un sospiro.

Marco che fa saltare indietro il calendario di 50 anni in pochi minuti senza fare “operazioni nostalgia” ma, come sempre, grande musica. (mlml)

 

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